Quando la lingua d’elezione potrà essere quella del “nemico”?

L’interculturale in Assia Djebar e Malika Mokeddem

 

C’è una direttiva molto importante, ma forse un po’ trascurata, nei Programmi degli indirizzi Brocca, che riguarda la necessità di prevedere per la lingua francese, inglese e spagnola “uno spazio adeguato ad autori rappresentativi extraeuropei dei vari continenti”. Tale indicazione, per quanto riguarda il mio specifico di insegnante di francese, è coerente con la strategia culturale perseguita da molti anni da “Le français dans le monde”, bellissima rivista vicina al Ministère de l’Education Nationale che nel suo sottotitolo si definisce “internationale et francophone”. Nel numero di sett.-ott. 1999, il cui dossier è dedicato proprio al futuro della francofonia, c’è una affermazione che può riassumere l’indirizzo intrapreso dalla stessa “Agence de la Francophonie”, organismo intergovernativo che conta l’adesione di 52 stati: “ Il francese è stato imposto in molti paesi al tempo della colonizzazione. Se questa lingua vuole essere pienamente accettata in quei paesi, deve rispettare e valorizzare fin dalla scuola di base le lingue e le culture nazionali. Non si tratta più, dunque, di diffondere il francese in modo egemonico, ma di trovare i mezzi, attraverso la sua mediazione, per mantenere, proteggere e difendere le lingue e le culture che coesistono nello spazio francofono” (pag. 62).

Questo è lo sfondo dove colloco i miei orientamenti didattici, ma le ragioni che mi hanno spinta a far avvicinare le/i mie/i studenti ai testi in particolare di Assia Djebar e Malika Mokeddem sono, insieme, letterarie ed etiche, volendo sollevare, attraverso le domande delle/degli studenti e mie, qualche dubbio su un approccio alla multiculturalità spesso oscillante tra una visione “neutralistica” delle diversità socio-culturali e una immagine variopinta, alla “colours of Benetton”, delle oggettive contraddizioni che introduce la relazione con l’Altro. Mi piacerebbe, infatti, condividere un’esperienza di lettura che vada alle radici della lingua d’elezione e si interroghi sulle cancellazioni o sui processi di rinascita che lei –lingua d’elezione- determina o può consentire.

Mi è sembrato “naturale”, e paradigmatico insieme,  all’interno di questo ragionamento, concentrare l’attenzione su due scrittrici maghrebine, molto diverse nei percorsi personali e per sensibilità estetica, che vivono in Francia e che hanno scelto di esprimersi in francese, nella lingua, cioè, dell’ ”antico oppressore”. C’è un’ampia letteratura maghrebina di espressione francese che potrebbe essere considerata a tal proposito –penso, per es., a Ben Jelloun notissimo anche in Italia o a Tahar Djaout, assassinato nel ’93 proprio perché scriveva in francese, a cui Mokeddem ha dedicato L’interdite e che Djebar ricorda, assieme ad altri amici scomparsi, in Le Blanc de l’Algérie-. Ma l’interrogativo sul perché della scelta di una lingua che, se non è straniera per educazione, è comunque storicamente la lingua dello straniero, mi è sembrato ancora più radicale e sofferto in queste due donne, nel loro assumere fino in fondo, assieme a e a nome di tante altre sorelle[1], la responsabilità della differenza.

Assia Djebar fa del problema della lingua e della sua trasmissione, del “nominare”[2], il tema centrale dell’intervista a Renate Siebert[3] e questo costituisce la chiave di lettura di molti suoi romanzi, in particolare di Vaste est la prison e di Le blanc de l’Algérie. Ma la ragione profonda che spinge ad adottare il francese, che pur sacrifica le metafore[4], è da cercare, secondo me, spingendo fino in fondo l’interrogativo sul perché del non uso –e quindi  rifiuto, mi posso permettere di dire io, meno coinvolta affettivamente – della lingua araba. Arabo-lingua materna o, per dire meglio, sia pure con qualche complicazione che cercherò di esplicitare oltre, lingua della madre biologica (e non sempre o non sempre soltanto…).

C’è un primo livello di risposta, infatti, che, rispetto a questo sguardo, si presenta insufficiente: non verrebbe usata la lingua araba perché o letteraria, e perciò élitaria, o ordinaria, e ancora in fase di codificazione nelle diverse versioni regionali. Insomma, il francese garantirebbe una diffusione più larga e una risonanza più importante ad una cultura di libertà, molto segnata dalla laicità europea,  trasmessa fin dai tempi della colonizzazione. Oppure, chissà, in questa scelta ci sarebbe il segno di una eredità da cui non si è completamente, nel profondo, emancipati: basti pensare al debito di riconoscenza nei confronti di Camus, l’influenza sotterranea di Duras, la compagnia del Petit Prince di Saint-Exupéry in tantissimi testi delle autrici citate.

Ma chiarendo il termine “nemico” che ho usato nel titolo, pongo una domanda che vorrei dicesse la mia vicinanza e solidarietà, la condivisione di una storia attraverso lingue che possono dare voce all’identità, alle appartenenze proscritte e permettere così che il diverso –il suo corpo, la sua anima- non sia più oscurato, sottratto alla luce della vita.

Nelle prime pagine di Vaste est la prison, Djebar racconta un episodio fondamentale nel processo di coscientizzazione del valore simbolico, e quindi anche sociale, della lingua: la narratrice –ma il romanzo, scritto alla prima persona, è autobiografico, come quasi tutti gli scritti delle autrici da me considerate- chiede spiegazione alla suocera amatissima della parola  l’e’dou “nemico” con cui una sua amica aveva designato la persona che l’attendeva a casa. Ecco, con la parola l’e’dou, a Blida, capitale dell’integralismo, le donne chiamano il marito. Ma anche a Cherchell, città più “laica”, le donne, quando si ritrovano tra loro, indicano con un “lui” il proprio marito; la stessa madre di Assia Djebar, pur godendo di una situazione abbastanza privilegiata, solo molto tardi aveva osato chiamare col suo nome il proprio consorte. E simmetricamente gli uomini, tra di loro, riferendosi alla moglie dicono “la casa”; a Blida, invece, anche i più giovani diranno “la vecchia” e se parleranno di figli citeranno soltanto i maschi. “La Bernard” di Les hommes qui marchent rompe la tradizione del lutto per la nascita di una bimba[5] e, in senso molto forte, lei levatrice, porta alla vita Leila (Leila –Notte), le impone il nome contro la consuetudine delle Khédidja, Fatiha, Zohra, la “accompagna” da M.me Bensoussan che “la guida(va) in quella lingua che Leila non aveva scelto, ma che ama(va) già, il francese. Lentamente, e con la complicità delle sue parole e dei suoi libri, le svela(va) quel mondo che lei attraversa(va) soltanto per recarsi a scuola” (p. 124). In questo amore per una lingua che all’origine è estranea, stanno, assieme, lo svelamento del mondo alla lucidità di un occhio puro e la possibilità di quella accoglienza amorosa, di quel dono di sé all’altro che sono impossibili, invece, nel contesto narrato dell’Algeria e dell’area maghrebina, all’incontro tra i sessi. Neppure guerra tra i sessi, ma disperazione, oltraggio reiterato. “I ragazzi, non hanno ancora finito di divorare loro (alle madri) i seni, che sono già i loro censori. Non hanno “sputato” i denti da latte che vedono nelle madri delle anime sataniche. Geneticamente colpevoli. E quando spuntano i denti del giudizio, la misoginia raggiunge il colmo della rabbia. E dire che sono le illetterate, prime vittime di questa educazione, che inoculano ai bambinetti i rudimenti del maschilismo che avvelenerà la loro propria vita!” (p. 56), è detto in un passaggio durissimo di Des rêves et des assassins. Kenza, come Leila, sfida l’ordine familiare e sociale e va a scuola. Ma, decidendo di interrompere la catena dei destini predefiniti, il percorso che l’attende è pesante quanto il macigno che piega le spalle di Sisifo, l’eroe solitario di Camus. Un’altra frase durissima nella sua inequivocità illustra la condanna inevitabile –dolorosa, ma desiderata, in un atto di sfida che è il gesto ultimo della sopravvivenza-: “Imparare la lingua dell’altro, primi passi verso la singolarità. Verso una solitudine sempre più profonda…(p. 21)”.

Ma perché imparare la lingua dell’altro per Leila, Kenza e tante altre significa prepararsi alla solitudine?

Perché questo divorare libri, questo corpo negato nell’anoressia, rincantucciato nel silenzio delle pagine, diventa il simbolo di un rifiuto radicale. Il libro per Leila non è soltanto evasione, ma forza combattiva, tenacia, resistenza. Il libro la ritira dalla vita familiare, da un destino di femmina dal ventre violato. Le indica un’ascendenza non biologica, ma altrettanto vitale, le permette di riconoscere l’odore di una filiazione rassicurante in una donna per la quale aprirsi agli altri è affrancare la vita dagli ostacoli delle razze, delle caste, delle religioni. Ciò, proprio nel momento in cui la proscrizione sociale si abbatte su di lei, figlia dannata. E se la madre biologica, vittima prima di Leila della misoginia del padre, dei fratelli, dei figli maschi, pensa di essere castigata per qualche colpa ignota, le madri di adozione, tutte “straniere” (il termine étranger/ère è molto più polisemico…), ma divenute familiari, si prendono cura di questa figlia voluta, le danno i suoni di una nuova lingua materna che la riporta faticosamente alla vita. Per questo Kenza, protagonista di Des rêves et des assassins, fuggita da Oran a Montpellier, alla ricerca di sé e della madre che padre e fratelli le hanno negato, può dichiarare una identità vasta come il mare da lei attraversato (“Je regarde la mer. Pense à ma mère. Au désert et à Alilou…” p.154 -mare, madre in francese sono omofoni e dello stesso genere). Sono mediterranea, dice lei stessa con stupore, la prima volta. L’Etranger di Camus è donato a Leila dal solo fratello amato. E forse questo legame fraterno, così raro e condannato alla clandestinità, si genera a partire dal gesto di reciproco riconoscimento rappresentato proprio dal libro. L’Etranger è scritto in lingua francese, in una “non-langue maternelle”, come osserva Djebar[6], scoprendo di usare anche lei questa non-lingua, perché nel caso di Albert Camus la lingua francese non è trasmessa dalla madre (quasi muta, analfabeta e d’origine spagnola), ma è appresa a scuola, dai suoi maestri, che ricorderà con affetto pieno di gratitudine nel “Discours de Suède”, in occasione della consegna del premio Nobel per la letteratura.

Ma cosa significa allora questa frase di Vaste est la prison, ripetuta dentro di me infinite volte e sul cui senso non ho osato interrogare Assia Djebar in occasione del suo incontro con gli studenti del Liceo Ariosto di Ferrara? “Silenzio della scrittura, vento del deserto che gira la sua macina inesorabile, mentre la mia mano scorre e la lingua del padre (lingua d’altronde tramutata in lingua paterna) snoda un po’ alla volta, sicuramente, le fasce dell’amore morto;…” (p.11, éd. Albin Michel). Mi suona ancora enigmatico il senso di questa metamorfosi del francese da “langue du père” a “langue paternelle”, a lingua, infine, “de l’amour mort”. E’ molto bello l’esordio di Le Blanc de l’Algérie, con la presentazione di quei tre cari amici scomparsi ai quali lei continua a parlare -e dei quali a noi narra- nella loro lingua comune: il francese. Ciascuno dei tre, infatti, si intratteneva con lei “in lingua straniera: per pudore o per austerità…” Avevano presto scoperto –Kader Alloula e lei, cognati, ma nel romanzo questo dato “sociale” non conta- che conversando in arabo diventavano, per eccesso, lei, una borghese dei vecchi tempi, e lui, un contadino rude e rozzo. “No, non potevamo sembrare così differenti se non per atavismi improvvisamente intravisti nelle variazioni della lingua materna” (p.16). Il francese di un tempo, finalmente liberato dalla coltre del passato, “si rigenera oramai in noi, tra di noi, tramutato in lingua dei morti.” (p.18), diventa quella lingua degli affetti più profondi, liberi e liberati dalla stessa vita, che consente di ricostruire un universo dei rapporti riconciliato con l’amore stesso.

Anche qui, per questo nodo enigmatico della lingua di Djebar, si può dare una prima lettura: il padre era l’unico Arabo ad insegnare francese a Blida, lei studiava alla scuola francese e di pomeriggio frequentava a pagamento quella coranica, poi il padre la manda a studiare in Francia, etc. Ma mi piace pensare che qui , in questa “langue paternelle”, ci stia il mistero del non-detto-fino in fondo, che accompagna ancora oggi la scelta inevitabile (non-scelta, allora, voglio dire andando oltre le biografie personali) dell’esilio nel francese.

Non è ancora giunto il tempo per la lingua materna di lenire, con la parola della scrittura, le ferite antiche portate al corpo della donna e di raccontare le gioie dell’amore non più negato. E quale lingua: l’arabo, il berbero delle montagne, emblema della resistenza agli invasori e agli integralismi, le lingue orali di cui si perdono le tracce negli spazi senza tempo del deserto, le lingue cancellate di una storia di convivenza perduta? Derra, “co-épouse” in francese, con-moglie in italiano, dice nella sua etimologia (“derr” è la ferita) dove sta il problema. Ma questa parola, stabilendo una relazione al femminile, dice anche che è possibile, ma che deve diventare più intensa, la sorellanza tra le donne, malgrado l’uomo-l’e’dou. Forse vado troppo oltre, ma nell’Interdite di Mokeddem il tema del trapianto –trapianto del cuore di una ragazza algerina nel corpo di un francese, storia d’amore tra questo francese e una dottoressa di Montpellier, fuggita dal suo paese d’origine per ritornarvi seguendo le tracce di un suo antico amore morto- mi pare costituire la metafora di un “métissage” doloroso, contradditorio, ma unica salvezza possibile: “Vale per il trapianto[7]ciò che vale per ogni integrazione di “étranger” (nell’originale con le virgolette e, quindi, con quella polisemia che dicevo). E’ necessario un lavoro di accettazione reciproco: lavoro chimico esercitato con rimedi farmaceutici sul corpo dei pazienti, per l’uno, rimedi pedagogici sul corpo sociale per l’altra.” (p.139)

Eccoci allora a quella interrogazione prima che lingue, culture, sensibilità diverse ci trasmettono superando i muri delle distanze: perché i processi identitari si debbono tramutare in strumenti di esclusione e di morte, perché i meccanismi di appartenenza debbono decretare l’espulsione e l’esilio? In ogni uomo, in ogni donna si incontrano appartenenze multiple e differenze costitutive proprio della sua identità, alcune legate ad una storia etnica, altre no. L’identità di ognuno di noi è fatta di tanti “métissages”; scoprirlo, vederlo in  sé stessi, è già portare lo sguardo fuori di noi, esorcizzando la paura dell’ignoto. Dare accoglienza alla lingua diversa, al corpo che parla con voce diversa, è l’atto più impegnativo tra tutti perché ci porta alle radici delle nostre relazioni con l’Altro, ma solo così la lingua d’elezione può essere davvero quella della libertà.

 

Per questi pensieri mi sono stati fondamentali l’aiuto e l’amicizia di Rosalia Bivona, tutor presso l’Università di Enna, esperta di letteratura maghrebina di espressione francese; ringrazio anche le amiche del gruppo “Parità e differenze” dell’IRRSAEV,  in particolare Cristiana Massioni, per tutti i suggerimenti e il sostegno che riceve la mia riflessione su questi temi. I testi, di cui esiste generalmente una traduzione italiana, sono stati considerati nella edizione originale.

Anna Manao

 



[1] Vorrei far giungere (ma come?) al gruppo Aicha –“le amiche algerine che rifiutano gli interdetti”, come dice Mokeddem- il senso di una vicinanza che abbraccia il Mediterraneo, ma penso anche a tutte quelle sorelle, ombre senza voce, che continuano a prendersi cura, rischiando la vita, delle ferite inferte alla libertà della donna.

[2] E facile leggere sotto tale luce la scelta, a 20 anni, dello pseudonimo da parte di Fatima-Zohra Imalhayène: Djebar, in arabo classico, è l’”intransigente” –uno dei 99 appellativi di Dio-, Assia, invece, nome antico frequente in Tunisia dove lo si scrive con la e, Essia, significa in dialetto “colei che consola, che accompagna con la sua presenza”.

[3] Renate Siebert, Andare ancora al cuore delle ferite, La Tartaruga edizioni, Milano, 1997

[4] vedere Des Rêves et des assassins, Le livre de poche, Paris, 1995, p.98. Mi piacerebbe rileggere, da questa prospettiva, Maglia o uncinetto di Luisa Muraro.

[5] La “roumia” Bernard è la prima di una serie di donne a cui la ragazza dovrà la costruzione della sua identità/differenza femminile: tra queste c’è Zohra, la nonna, ci sono le maestre francesi (francesi e non pieds-noirs; anche Djebar nell’intervista insiste sul fatto che i suoi insegnanti fossero francesi e non pieds-noirs e, perciò, con un forte senso della missione da compiere), Sarah, l’amica ebrea, e sua madre. Non c’è la madre biologica da cui, anzi, la separa la frontière des traditions (p. 136, éd. Grasset, 1997). Des rêves et des assassins è dedicato a Alloula e a “Odette Marque, ma mère française”.

[6] Assia Djebar, Le blanc de l’Algérie, Albin Michel, Paris, 1995, p.31

[7] “greffe” in francese, suono così vicino a “griffe”, artiglio che strappa e ferisce…, ma la “greffe”, invece, riporta alla vita grazie proprio ad una lacerazione delle carni. Su questo tema, analizzato attraverso il romanzo di Nina Bouraoui,  esistono vari articoli di Rosalia Bivona.